‘Audible Incarceration: Singing and Suffering in South African Concentration Camps’
Erin Johnson-Williams
This paper examines how communal singing in the concentration camps of the South African War (c.1899–1901) both enacted and resisted institutional forms of imperial power. Drawing upon first-hand accounts (diaries; medical and newspaper reports) of prison life in Afrikaner concentration camps, I consider that the singing of Dutch-language psalm tunes and hymns occurred spontaneously at moments of personal and communal grief, as well as more formally in concentration camp funerals and prayer meetings. The texts were Calvinist, often emphasising parallels between the plight of the Afrikaner people and the Israelites. This was in aesthetic and theological tension with the evangelical hymnals that British soldiers and missionaries disseminated among the prisoners. More broadly, in the prisoner of war camps in India, Sri Lanka, St Helena, Bermuda and Portugal that housed transported Boer soldiers, hymn singing functioned as a means of negotiating a displaced Afrikaner identity: in the Diyatalawa camp in Sri Lanka, for example, archival sources reveal that the Boer prisoners were resistant to the British regiment offering brass band concerts because they disturbed the open-air prayer meetings. Drawing upon musicology, colonial history and theological anthropology, I propose that the experience of communal singing in South African War camps fostered cultures of separatism in which the act of communal singing becomes a form of ‘audible incarceration’ that both shaped, and defied, the brutality of late nineteenth-century imperial power structures.
Questa relazione esamina il modo in cui il canto comunitario nei campi di concentramento della Guerra del Sudafrica (1899-1901 circa) abbia al contempo rappresentato e contrastato forme istituzionali di potere imperiale. Attingendo a resoconti di prima mano (diari, rapporti medici e giornali) sulla vita nei campi di concentramento afrikaner, si rileva come il canto di salmi e inni in lingua olandese si manifestasse spontaneamente in momenti di dolore personale e comunitario, oltre che in modo più formalizzato nei funerali e negli incontri di preghiera. I testi erano calvinisti e spesso enfatizzavano i parallelismi tra la situazione del popolo afrikaner e gli israeliti. Questi canti si contrapponevano sia sul piano estetico che teologico agli innari evangelici che i soldati e i missionari britannici diffondevano tra i prigionieri. Più in generale, nei campi per prigionieri di guerra in India, Sri Lanka, Sant’Elena, Bermuda e Portogallo, che ospitavano i soldati boeri deportati, il canto degli inni rappresentava uno strumento per negoziare un’identità afrikaner apolide: nel campo di Diyatalawa in Sri Lanka, ad esempio, fonti d’archivio rivelano che i prigionieri boeri si opponevano al reggimento britannico che offriva concerti di bande di ottoni, perché disturbavano le riunioni di preghiera all’aperto. Attingendo alla musicologia, alla storia coloniale e all’antropologia teologica, si ipotizza che l’esperienza del canto comunitario nei campi di guerra sudafricani abbia favorito culture di separatismo in cui l’atto del canto rappresentava una forma di ‘incarcerazione udibile’ che ha al contempo plasmato e sfidato la brutalità delle strutture di potere imperiali di fine Ottocento.